Diario di viaggio: 25 dicembre 06, Kanchipuram.

Kanchipuram, Ekambareshvara Mandir, la vasca

La luce della mattina in India è qualcosa di particolare.
Non so come mai ma, quando la mattina apro gli occhi, entra sempre, miracolosamente, da destra.
Invade la mia camera irradiando timidamente un colore giallo pallido, rispettosa del morbidezza del sonno.

Questa mattina però, è preceduta da un irriverente suono ritmico, mitragliate. Tratattattaaaa!

È iniziato prestissimo e ne scopriamo la provenienza solo quando, dalla finestra, l’occhio scende dai lontani orizzonti e cade nel retro del cortile dell’albergo: diversi uomini si prodigano a tagliare verdure, e lo fanno, dalle prime ore dell’alba.
- Rouge guarda – indico alla mia compagna di viaggio - la nostra colazione!

Scendo al banchetto accompagnata dalla danza dei nostri sms che rimbalzano da due capi del mondo, ignorando il fuso orario. Riconosco che per l’ora e la distanza sono stata troppo ermetica, cerco per quanto possibile di spiegarmi in ultimo lungo sms e spengo il telefono, considerando che potrei lasciarti dormire, visto che da te è notte fonda.

La colazione non prevede quelle verdurine tagliate fini fini sulle piastrelle del retrocucina, o forse sì, se fossi stata in grado di chiedergli quella prelibatezza indiana.
Pago la mia ignoranza con pane e marmellata, e le petulanti lamentele della Sciura, altra compagna di viaggio che a quanto pare, non era preparata ai tempi e alle pause indigene.

Il primo tempio della mattina è l’Ekambareshvara Mandir di Kanchipuram, per gli amici, Kanchi, una delle sette città sacre dell'India.

L’autobus ci lascia poco lontano ed entriamo con le scarpe ai piedi. Dal gopuram d’ingresso alla sala colonnata c’è un ampio pezzo di sterrato. Ci viene incontro un giovane brahamana grassoccio, con due enormi occhi verdi, cangianti, ed un sorriso incurante del mondo.
Si chiama Narayana.
Narayana, come il figlio di Ajamila della storia tratta dal sesto canto del Bhagavata Purana. Nara significa uomo e yana viaggio. Nella storia, pronunciando il nome del figlio, il padre durante la sua vita peccaminosa, si salva davanti agli occhi di Yama, il dio della morte.
E sia chiaro… ed è solo una delle storie…

Lasciamo le scarpe nell’immediata vicinanza del complesso ad una signora con un dente solo, impegnato nel masticare le foglie di betel, quelle che ti fanno diventare labbra e gengive rosse. I

l tempio è vastissimo. Siamo accolti sotto la kalyana mandapa, la sala dalle mille colonne, Questo è il nome, ma le colonne non sono certo tante.
È ospitato qui, Nandi, il toro veicolo di Shiva, che ci indica chiaramente a chi è votato il tempio.
Lo spazio è stretto, le colonne non sono distanti tra loro più di 2/2,5 mt., le misure di un architrave in pietra.
Oltre, la vasca per le abluzioni, la tirtha. È enorme, l’acqua è verde e qualche forma umana la contorna sempre, uomini a bagno, donne che lavano gli indumenti, chi indugia a guardare l’acqua o a pasturare i pesci.

Narayana ci accompagna dentro, varchiamo un grande portone di legno.
Ci troviamo in un ambiente ampio, costituito da un percorso dal tracciato quadrato costeggiato da portici rialzati e coperti. Percorrendolo ci conduce al santuario vero e proprio, dove è custodito un prithivi-linga. ...il simbolo del maschile.
Riceviamo qui la nostra prima benedizione, giriamo intorno al fallo e il brahamana ci mette la campana in testa benedicendoci pronunciando il nostro nome.
Continuiamo il percorso quadrato sul quale si affacciano numerosi tempietti.
Narayana ci spiega che i brahamana di questo tempio sono circa 50 famiglie, davanti a noi un piccola folla.
Arriviamo in un cortile interno che racchiude il veneratissimo “albero di mango”, non uno qualunque, L’albero. Veneratissimo perché sembra che qui, Shiva, abbia concesso il perdono a Parvati - la sua shakti - che scherzosamente gli aveva chiuso gli occhi con le mani volendo giovare, senza pensare che avrebbe messo nell’oscurità il genere umano. Sciocca femmina!
Tutti i pellegrini salgono, girano interno, lo toccano, e ricevono un’altra benedizione, con terra grigia che si strofinano sulla fronte. Sembra che l’albero abbia potere di garantire sicura fertilità e perdono.

Io lo guardo e chiedo solo comprensione per quegli sciocchi e eccessivamente dotti sms che ti ho mandato troppo presto nel cuore della tua notte. Ma il mio telefono è silente.


Da qui ripartiamo per un altro tempio, sempre shivaita, il Kailashanath Mandir.
Ancora prima di scendere dall’autobus ci accolgono i venditori di ogni bene, ragazzini dalle gambine secche ma dalla testa fina, che sanno come lavorarsi un turista, strappandogli un sorriso. Entriamo nel cancello di recinzione del tempio salvandoci con un “dopo, dopo” che le creature già anticipano, avendolo imparato da chi sa quanti prima di noi.
Questo luogo è diverso dagl’altri, è più piccolo. Leggiamo la guida: “dedicato a Shiva, signore del monte Kailasha… voluto da Narasimhavarman I detto Rajasimba, leone tra i re, nel 700 d.c.” - lo stesso che edificherà lo Shore Temple che vedremo domani – “esempio significati di architettura dravidica”. Lasciamo le scarpe direttamente nel tempio, il vano di accesso, appena dentro le mura, è piccolo rispetto al precedente è il tempio. Dal cortile si vede al centro l’unico edificio sacro, aperto su di un lato con un portico che non conduce dentro. L’accesso è laterale e porta in un vano buio, dove se riuscissi a vedere qualcosa, metterei a fuoco la divinità. Ma vedo solo un enorme ghirlanda di fiori che ad occhio e croce, avrà uno spessore di 20 cm e non oso pensare la lunghezza.
Sembra che qui i fiori non deperiscano.

Percorriamo il percorso a ridosso del muro di cinta, ammirando le sculture del VIII sec. in parte, si leggono delle stuccature. Rimango incantata da una Durga sulla tigre. Ho letto che a sud, molto più che a nord, sono venerate divinità femminili come questa, energia di Shiva dalla forma terribile.

Prima di fare la terza visita, al nostro primo tempio visnuita - raro al sud, dove il culto principale è del divino Shiva, re della materia nella trimurti induista - si presentava necessario espletare un'esigenza fisiologica, mia, e di altre quattro compagne di viaggio.

Bene, dato l’impossibilità di trovare luogo per scendere in campo, Massimo-Guru-Mamma, ci mette letteralmente con l’autista del bus su due tuc tuc, che ci portano ad un bagno. Ma, dire che siamo scettiche è poco. Questi apitti indiani sono infernali, guizzano come pazzi nel traffico, frenano all’ultimo tuffo e suonano il clacson in continuazione. Ci ferma davanti ad un negozio e ci fa incamminare verso un lungo e stretto corridoio all’aperto, dove sono abbandonate delle bici. Entriamo in una stanza dove c’è un telaio e un uomo che tesse. Dovevamo avere la pipì a livelli da ottusione mentale per non capire che quello sarebbe stato il negozio dove la guida, ci avrebbe portato in seguito.

Diligentemente in fila, facciamo i nostri bisogni in due settori, quelli per il water e quelli per la turca. A me tocca quest’ultima, e ultima della fila. Appena giungo in postazione, dal mio professionale gilet, un-po'-fotografo-un-po'-Sampei, esce il cellulare, quel cellulare dal quale attendevo ancora risposte.

Questo esserino inanimato prende il via e si dirige, diritto, diritto al suolo, attratto da quella terrificante forza che è la gravità. Dato che la mia posizione era accademicamente scelta per far pipì, il cellulare mira la turca e rimbalza istericamente, come la pallina di un flipper colpito con tanto di sobbalzo d’anca, prima a destra, poi a sinistra, ancora a destra ed infine raggiunge il nero centro dello scarico.
In un nano secondo rifletto: sopporto lo schifo della mano immersa, o la sofferenza del dileguato contatto con te?
La prima che hai detto!

La mia mano si immerge nella pipì di quelli che l'hanno fatta prima di me, per cogliere subito il naufragato attrezzo.
Si perché ricordo che in India lo sciacquone si tira con il bricco fai da te.
Solo la paura dell’isolamento mi spinge a chiedere aiuto e a passare alla Cunese-madre-sprint, il cellulare spiegandole l’accaduto dal pertugio della porta, ancora in posizione accademica e scusandomi ripetutamente.
Non potendo fare altrimenti, nelle condizioni in cui ero, e non avendola ancora fatto, completo quell' impellente e inopportuna pipì.