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Un Mare di Papaveri di Amitav Ghosh

Devo ammettere di avere considerato, in un primo momento, esagerato il trasporto che leggevo in rete per questo romanzo.

Avevo già letto altro di questo autore, mi era piaciuto, ma non mi avevano "conquistato".
È accaduto l'inaspettato: Un Mare di Papaveri - nemmeno avesse tra le pagine il potere dell'oppio di cui narra - ti strega e ti incatena alle pagine, una dopo l'altra.
Questo è quello che è successo a me, in queste afose sere estive di fine agosto.

Risultato: notti insonni e 550 pagine volate in pochi giorni.

Siamo nella prima metà del 1800.
Il primo personaggio in cui il lettore si imbatte è Deeti, una contadina, ingenua per condizione ma intelligente per natura e soprattutto con una dote assai particolare, con i suoi occhi grigi - da strega dicono in molti - vede, vede oltre la realtà quotidiana.

Ed è lei che vede per prima la Ibis - la vera protagonista del romanzo - la goletta, un bastimento a vela assai particolare, che l'autore ci fa conosce nei dettagli.

La prima parte del romanzo, pur preannunciando tutti i componenti della futura avventura, offre un spaccato esaustivo e quanto mai interessante sui risvolti che la coltivazione dell'oppio ha sulla vita e l'economia di questa zona interna dell'India.
La coltivazione del papavero soppianta quelle cerealicole tradizionali. Accade che un contadino, seppure povero, con unica ricchezza la sua terra, si metta a ricorrere i guadagni scegliendo la coltivazione dell'oppio, e se non lo sceglie di sua sponte, vi viene comunque indotto dai signorotti locali. La fabbrica della Compagnia delle Indie che lavora la materia prima, paga bene il prodotto scelto. Con un buon raccolto si può pensare - e lo fa anche Deethi - di prevvedere a rinforzare il tetto per l'inverno... ma se il raccolto non è buono, per comprare di che vivere, si dovrà indebitare, firmando cambiali che impegnano il suo solo bene, la terra.
È proprio questo che spinge Deeti a tentare la sorte, e non sarà la sola.
Con le un'umanità quanto mai variegata.

Senza svelare troppo della trama ben intessuta di questo magnifico romanzo, vi vorrei raccontare di Neel, il Raja di Raskhali, un personaggio di casta alta, educato secondo i più alti precetti religiosi, da questi condizionato e condotto lontano dalla umana quotidianità. Sarà come Deethi e come gli altri alla ricerca. Per dove ancora non ci è dato sapere, attendiamo fuduciosi gli altri due romanzi della trilogia.
Ma c'è un passaggio molto bello che mi sento di segnalare per l'efficacia comunicativa, in cui l'autore mette sapientemente in luce il processo estraniante che questi insegnamenti religiosi hanno avuto su Neel. Questo dotto e gracile personaggio, per un destino più che infausto, direi incontrollato, si trova repentinamente in un'altra vita, una nuova condizione in cui si trova costretto a compiere alcuni dei gesti che fino ad allora gli erano proibiti perchè impuri, peccaminosi. Si aspetta che toccando quell'oggetto o mangiando quell'alimento, su di lui si scagli la più dura punizione divina. Quando, con sua sorpresa, questo non accade, si riappropria di gesti comuni, azioni, e comprende, molto di più di quello che gli è stato insegnato da precettori e dai numerosi libri, che è lo stesso uomo, uguale a molti altri che gli stanno a fianco.

Uno degli elementi che tiene incollati alle pagine per la spontaneità e l'immediatezza che trasmette è le modalità in cui parlano i singoli personaggi. Si capisce anche dalla traduzione italiana e sicuramente sarà esageratamente bello in inglese, che ogni personaggio ha un suo linguaggio specifico: il dialetto, la lingua di quella data regione, l'inglese maccheronico dei marinai, quello degli ufficiali superiori, quello delle dame. E poi c'è la Cina, lontana ma non troppo, invischiata nel commercio dell'Oppio, presente come un ombra lontana, fonte di influssi linguistici. Quest'attenzione al "rumore di fondo" come lo chiama lo stesso Ghosh, è una peculiarità che rende straordinariamente vero e familiare questa grande epopea storica.