foto Luca Gatti
Dopo la visita agli ambienti di corte, tocca ai luoghi sacri della moschea e della tomba del sufi. In quei 50 mt che separano i due complessi, ognuno di noi è adottato da un bambino che parla più o meno tutte le lingue europee. Ognuno di noi è con il suo piccolo indiano che individua, tra le tante parole multilingua in suo possesso, quelle italiane e le ripete a disco continua.
Ci leviamo le scarpe in cima alla grande scalinata che conduce ad uno dei quattro Ivan d’accesso. L’ambiente dentro è enorme, una piazza d’armi esagerata circondata da portici in arenaria rossa, spezzati dall’accesso alla moschea, Jami Masjid e dal candido cenotafio di Chishti. Il mio angelo custode, Said, indica tutti i posizionamenti dei miei prossimi passi.
- “Metti piede lì, salta di qua..”
Tento di fargli capire subito che non gli darò soldi ma lui a questo non crede e mi rimane a fianco.
È un contesto caotico, tra gli schiamazzi dei bambini-custodi che richiamano la nostra attenzione ad ogni tomba del pavimento, la guida che parla e ci illustra l’architettura, i miei occhi che corrono attorno a capire se il luogo ha davvero questa valenza emotiva paragonabile al Taj Mahal, la folla di turisti indiani che spintona, in questo contesto, una mosca, una lurida mosca indiana, mi si avvicina alla narice sinistra e vede bene di passare troppo vicino, tanto vicino e proprio in quella frazione di secondo che dura un inspiro. In breve me la ritrovo alla radice del naso, in quel punto di valico che porta alla gola.
Tossisco all’impazzata, provo a soffiarmi il naso chiudendo l’altra narice e soffiando forte, nel delirio trovo anche un fazzoletto, infilando dito e carta nel naso, alzo la testa, disperata. Vedo Tiziana con un goccio d’acqua nella bottiglia, idea!
-“Me la presti? Ho una mosca nel naso!”
La ragazza ha enormi qualità comprensive del genere umano, passa la bottiglia e non mi fa domande. Mi metto alle spalle di tutti, con la testa fuori dal portico, inclinata sulla sinistra, inizio a far passare l’acqua dalla narice destra piano piano, a piccoli sorsi. Il lavaggio delle nari. Tutto questo è già difficile farlo nel bagno di casa con l’attrezzatura giusta, lo è ancora di più con lo stuolo di bambini/custodi radunati davanti a te a fare “No! No madame!” e gesticolare, indicando con il pollice che l’acqua si porta alla bocca e non al naso.
La scena sarebbe stata estremamente divertente: un’occidentale con una mosca dentro al naso, che tenta di liberarsene con la pulizia delle narici e un gruppo di bambini dediti alla caccia di monete che lasciano per un momento il lavoro per far capire, a gesti, alla sventurata, che l’acqua arriva meglio se passa per la bocca invece che per il naso. Tutto questo sarebbe stato divertente se quella non fossi stata io quella, e la mosca non fosse stata indiana.
Bene dopo questo show per indigeni - per fortuna nessuno dei miei ha goduto la scena - dopo tutto questo, cerco di seguire il gruppo e le spiegazioni della guida. Ma l’apparato respiratorio irritato m’impedisce una lucida presenza sul pianeta terra.
Sonia chiama Fatehpur Sikri! Sonia chiama Fatehpur Sikri!
…E Fatehpur Sikri risponde.
Saltando per scavalcare una serie di tombe in terra di cui ricordo poco - meno male che Said non mi ha abbandonato - riesco ad arrivare al candore della tomba del sufi.
Un ambiente quadrato precede la cella con le spoglie.
Lì è la magia, un’emozione paragonabile al Taj Mahal, inaspettata, insospettabile e miracolosamente puntuale.
L’odore di gelsomino nell’aria, le jali alle pareti che raccolgono questo spazio mistico, l’esigenza di toccarle, di passarci le mani, di mettere le dita tra i fori, di guardare fuori adagiando l’occhio alla pietra, di strusciarci il naso.
A questo punto Said ha avuto la certezza della stravaganza degli occidentali. Io ne ho avuto la conferma quando le mie congetture mentali hanno visto la mosca come un segno per pulire le narici e poter respirare a pieno la magia del gelsomino.
Se volo alta con i pensieri, materialmente saltello sul pavimento caldo di sole, per approdare alla moschea. Doro le moschee! Ah, l’ho già detto vero? Si l’ho già detto. Adoro quest’aria di comunione, collettività che si respira. Luogo di culto aperto alla fruizione di tutti, più uomini che donne vero, ma con tanto di libri da consultare, spazio per sonnecchiare, pregare, chiacchierare… ci godiamo qualche minuto a sedere.
La moschea ha il ventre di arenaria rossa, come il portico che frontalmente all’ingresso si gonfia e accoglie le cerimonie religiose. Riprendiamo il giro dei portici, in solitario, con Said che mi controlla da lontano, raccolgo un bastoncino di incenso, jasmin, altro segnale? Continuo uscendo dall’ingresso per gli indigeni, per guardare il panorama, mirabile dall’altura della moschea.
Terra a 360°, ha un che di familiare, sembra la stessa veduta umbra che si mira scendendo dai colli di Poreta verso la valle del Clitunno. Come dire, mi sento a casa, ma forse è superfluo.
Ci dirigiamo verso l’autobus,è giunto il momento dell’addio ai nostri angeli custodi, momento straziante, le richieste asfissianti. Said è offeso dell’offerta di monete, non saprei dire se per la quantità o il gesto.
Sul bus, tanti pensieri. Ma non si rivolgono al fuori, sono verso il dentro, verso me. C’è qualcosa di diverso nel mio rapporto con gli altri, é un’apparente armonia, colgo qualcosa che non quadra, non individuo cosa. Prima non c’era, come una sorta di gelosia, una sicurezza a momenti maliziosa, un’inadeguatezza successiva, un prossimo irruente desiderio. Non trovo il pigli per affrontare la questione. Questa mia “impronta al sentire” lascia perplessi i miei compagni di viaggio, si percepisce nelle cose che dico, nella conversazione tiro sempre fuori qualcosa che ammutolisce gli altri.
Chissà cosa penseranno, comunque tollerano e accettano.
È quello che farò anch’io, lascio cadere come qualcuno mi suggerì a suo tempo, quei coltelli nello stomaco, che troppo spesso facciamo girare con le nostre stesse mani.
Ci leviamo le scarpe in cima alla grande scalinata che conduce ad uno dei quattro Ivan d’accesso. L’ambiente dentro è enorme, una piazza d’armi esagerata circondata da portici in arenaria rossa, spezzati dall’accesso alla moschea, Jami Masjid e dal candido cenotafio di Chishti. Il mio angelo custode, Said, indica tutti i posizionamenti dei miei prossimi passi.
- “Metti piede lì, salta di qua..”
Tento di fargli capire subito che non gli darò soldi ma lui a questo non crede e mi rimane a fianco.
È un contesto caotico, tra gli schiamazzi dei bambini-custodi che richiamano la nostra attenzione ad ogni tomba del pavimento, la guida che parla e ci illustra l’architettura, i miei occhi che corrono attorno a capire se il luogo ha davvero questa valenza emotiva paragonabile al Taj Mahal, la folla di turisti indiani che spintona, in questo contesto, una mosca, una lurida mosca indiana, mi si avvicina alla narice sinistra e vede bene di passare troppo vicino, tanto vicino e proprio in quella frazione di secondo che dura un inspiro. In breve me la ritrovo alla radice del naso, in quel punto di valico che porta alla gola.
Tossisco all’impazzata, provo a soffiarmi il naso chiudendo l’altra narice e soffiando forte, nel delirio trovo anche un fazzoletto, infilando dito e carta nel naso, alzo la testa, disperata. Vedo Tiziana con un goccio d’acqua nella bottiglia, idea!
-“Me la presti? Ho una mosca nel naso!”
La ragazza ha enormi qualità comprensive del genere umano, passa la bottiglia e non mi fa domande. Mi metto alle spalle di tutti, con la testa fuori dal portico, inclinata sulla sinistra, inizio a far passare l’acqua dalla narice destra piano piano, a piccoli sorsi. Il lavaggio delle nari. Tutto questo è già difficile farlo nel bagno di casa con l’attrezzatura giusta, lo è ancora di più con lo stuolo di bambini/custodi radunati davanti a te a fare “No! No madame!” e gesticolare, indicando con il pollice che l’acqua si porta alla bocca e non al naso.
La scena sarebbe stata estremamente divertente: un’occidentale con una mosca dentro al naso, che tenta di liberarsene con la pulizia delle narici e un gruppo di bambini dediti alla caccia di monete che lasciano per un momento il lavoro per far capire, a gesti, alla sventurata, che l’acqua arriva meglio se passa per la bocca invece che per il naso. Tutto questo sarebbe stato divertente se quella non fossi stata io quella, e la mosca non fosse stata indiana.
Bene dopo questo show per indigeni - per fortuna nessuno dei miei ha goduto la scena - dopo tutto questo, cerco di seguire il gruppo e le spiegazioni della guida. Ma l’apparato respiratorio irritato m’impedisce una lucida presenza sul pianeta terra.
Sonia chiama Fatehpur Sikri! Sonia chiama Fatehpur Sikri!
…E Fatehpur Sikri risponde.
Saltando per scavalcare una serie di tombe in terra di cui ricordo poco - meno male che Said non mi ha abbandonato - riesco ad arrivare al candore della tomba del sufi.
Un ambiente quadrato precede la cella con le spoglie.
Lì è la magia, un’emozione paragonabile al Taj Mahal, inaspettata, insospettabile e miracolosamente puntuale.
L’odore di gelsomino nell’aria, le jali alle pareti che raccolgono questo spazio mistico, l’esigenza di toccarle, di passarci le mani, di mettere le dita tra i fori, di guardare fuori adagiando l’occhio alla pietra, di strusciarci il naso.
A questo punto Said ha avuto la certezza della stravaganza degli occidentali. Io ne ho avuto la conferma quando le mie congetture mentali hanno visto la mosca come un segno per pulire le narici e poter respirare a pieno la magia del gelsomino.
Se volo alta con i pensieri, materialmente saltello sul pavimento caldo di sole, per approdare alla moschea. Doro le moschee! Ah, l’ho già detto vero? Si l’ho già detto. Adoro quest’aria di comunione, collettività che si respira. Luogo di culto aperto alla fruizione di tutti, più uomini che donne vero, ma con tanto di libri da consultare, spazio per sonnecchiare, pregare, chiacchierare… ci godiamo qualche minuto a sedere.
La moschea ha il ventre di arenaria rossa, come il portico che frontalmente all’ingresso si gonfia e accoglie le cerimonie religiose. Riprendiamo il giro dei portici, in solitario, con Said che mi controlla da lontano, raccolgo un bastoncino di incenso, jasmin, altro segnale? Continuo uscendo dall’ingresso per gli indigeni, per guardare il panorama, mirabile dall’altura della moschea.
Terra a 360°, ha un che di familiare, sembra la stessa veduta umbra che si mira scendendo dai colli di Poreta verso la valle del Clitunno. Come dire, mi sento a casa, ma forse è superfluo.
“Questa è l’India, un pezzo di Islam, perfetto come alla Mecca, ma in un mondo Indù”.
Ci dirigiamo verso l’autobus,è giunto il momento dell’addio ai nostri angeli custodi, momento straziante, le richieste asfissianti. Said è offeso dell’offerta di monete, non saprei dire se per la quantità o il gesto.
Sul bus, tanti pensieri. Ma non si rivolgono al fuori, sono verso il dentro, verso me. C’è qualcosa di diverso nel mio rapporto con gli altri, é un’apparente armonia, colgo qualcosa che non quadra, non individuo cosa. Prima non c’era, come una sorta di gelosia, una sicurezza a momenti maliziosa, un’inadeguatezza successiva, un prossimo irruente desiderio. Non trovo il pigli per affrontare la questione. Questa mia “impronta al sentire” lascia perplessi i miei compagni di viaggio, si percepisce nelle cose che dico, nella conversazione tiro sempre fuori qualcosa che ammutolisce gli altri.
Chissà cosa penseranno, comunque tollerano e accettano.
È quello che farò anch’io, lascio cadere come qualcuno mi suggerì a suo tempo, quei coltelli nello stomaco, che troppo spesso facciamo girare con le nostre stesse mani.
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