:: Giorgio Manganelli
il mendicante indiano e l'occidentale
foto sonia squilloni
" (...) perché l'occidentale non solo prova pietà, non solo è sensibile ai segni della malattia, è lascivo quanto basta per conoscere le preclusioni del disgusto, ma è anche incline ai sensi di colpa. E questo il mendicante india sapeva, come sapeva che l'indiano non è sensibile, non è disgustabile, non si annoia, e non conosce sensi di colpa. E capii istantaneamente che in quella società, in quella cultura no c'è posto per la pietà individuale, non c'è quella dolorosa, disperata carità che lega l'Occidente al naturale morituro: né il mendicante, lo sventurato, ha pietà di se stesso. I segni della malattia e della miseria non sono «sventure»: vengono da lontano, vanno lontano; migrano da vita a vita, certificati dagli interventi degli dèi. Vi può essere pietà cosmica, la coscienza di una universale fatica intemporale ed anonima cui tutti ci dedichiamo e siamo consacrati. E quella assenza di pietà individuale faceva del mondo indiano un luogo tragicamente impervio, pervaso da una drammatica, incommutabile dolcezza, una indifferenza senza sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.
Questa scoperta mi fece riguardare il mendicante e la sua tattica in modo diverso: mi proposi di non dare elemosine, non solo per sfamare la mia naturale avarizia, quanto per vedere se mi era possibile accettare la miseria, la malattia, la sventura come un evento che, diversamente collocato, ha altro senso che nel nostro mondo."
da Esperimento con l'India di Giorgio Manganelli, 1992 Adelphi
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